ESSERE PRIMI È UN’IDIOZIA
Un invito a vedere le cose da un altro punto di vista.
Molto spesso, in ambito lavorativo – in ogni settore, dall’alimentare alla medicina, dal volontariato all’arte –, ci si pone l’obiettivo di essere primi (se si ha l’indole del ‘vincente’), oppure si guarda con ammirazione e invidia chi ha successo (se si ha l’indole del ‘perdente’).
Il numero uno, il primo in classifica, chi fa più fatturato, chi ha più follower, chi ha più like, chi ha più visualizzazioni, chi ha il voto più alto e così via, diventa un modello.
Chi ha avuto la sfortuna di imbattersi in qualche testo di Al Ries, sa che le prime regole riportate sono «essere primi è meglio che essere migliori» e «se non sei primo, inventa una categoria per esserlo». Dettami classici del marketing-fai-da-te, quello delle enumerazioni, quello che si impara da libri che assicurano il successo – «fermati! non investire in comunicazione, questo libro ti dirà come fare soldi a palate a costo zero!» –, libri divenuti poi infestanti video-corsi con promesse altisonanti, poco interessanti e decisamente lungi da un approccio etico al lavoro.
La società contemporanea ha creato il mito del social climber, l’arrampicatore sociale, l’opportunista, ci sono addirittura manuali e corsi su come diventarlo…
In realtà, dietro c’è lo stesso countdown retorico del black friday – il più emblematico caso di buy nothing day della storia! –: masse informi di persone che si camminano addosso per arrivare prima degli altri… al nulla.
Primeggiare è una delle peggiori ossessioni umane: arrivare primi a dire qualcosa (che comunque dicono tutti), essere i primi a fare qualcosa (che comunque fanno tutti), in una noiosa battaglia arrivista, amplificata da adwords, sponsorizzate, visibilità a pagamento e quant’altro.
Facciamo un esempio pratico: per anni, quando nessuno sapeva niente di SEO, c’è chi ha fatto fortuna grazie a una serie di trucchetti – oggi inutili –, per essere nella prima pagina delle ricerche su Google.
Oggi funziona ancora? Soprattutto, ha senso?
Si e no. Un sito ben indicizzato è una possibilità di essere trovati da chi ci cerca.
Ma, oggi, ci sono almeno tre grossi problemi che la SEO non risolve:
• L’insufficienza della sola SEO, visti gli sviluppi di ben altri parametri tra cui gli structured data.
• Un mercato saturo di informazioni che esige contenuti di altissima qualità, che facciano davvero la differenza.
• Google stesso oggi fornisce schede zeppe di informazioni utili agli utenti, in prima pagina e prima di qualsiasi altro risultato di ricerca, in modo che i naviganti concludano la loro esperienza senza più uscire dal motore di ricerca, obbligando i siti web a spendere sempre più in adwords.
E allora che si fa, direte?
Vi dico la mia. Bisogna applicarsi, certo, e tutte le regole e gli strumenti pubblicitari possono e devono essere utilizzati, ma avere come scopo quello di primeggiare è di una stupidità imbarazzante.
Primeggiare è essere al vertice dell’omologazione, la mediocrità glorificata: in una scala prestabilita, essere primi è raggiungere indistintamente tutti. Paradossalmente, è la via maestra di chi spara nel mucchio.
In tal senso, più si diventa un esempio da seguire, più ci si deve preoccupare.
È una legge, abbiate fiducia.
Onestamente, se un cliente dovesse raggiungermi con zero sforzo, perché sono primo, perché sono facile da raggiungere, non potrebbe mai essere un buon cliente.
Una persona che non si prendesse la briga di cercare, cercare e ancora cercare, di raffrontare, informarsi, approfondire, non potrebbe mai comprendere il genere di lavoro che faccio.
Bisogna cercarsi per trovarsi, ecco. Questo è il principio: venirsi incontro, dentro e fuori dalla realtà virtuale.
Fuori dal web, stringendosi la mano, cosa non da poco e che necessita volontà da entrambe le parti, competenze e strumenti di comunicazione adatti.
Dentro il web, puntando sulla sola cosa ancora ‘umana’ di tutto questo grosso pasticcio della realtà virtuale. Qual è? Chiamiamolo networking, in una delle sue applicazioni si declina nel link building – che sia il più spontaneo possibile –, perché sono gli unici stralci di codice ‘umano’ rintracciabili negli algoritmi.
A mio avviso, quindi, essere primi è un falso obiettivo.
Altra cosa è eccellere. Sebbene sia un termine abusato – quando usato impropriamente a mo’ di sinonimo di primeggiare –, eccellere ha un significato differente.
Eccellere deriva dal latino ex+cellere, letteralmente “spingere fuori”. Fuori da una qualsivoglia classifica, punteggio, elenco, ordine prestabilito. Fuori dalla comodità e dalla rassicurazione che offre un sistema preconfezionato.
Per eccellere è necessario trovare la propria via, rischiare la solitudine, rischiare accuse di eresia – dal greco airesis, la scelta che ci fa escludere tutto tranne ciò che abbiamo scelto –, rischiare di non piacere, di non essere capiti, di non essere apprezzati.
Anzi, eccellere comporta l’essere assolutamente certi di non piacere né ai primi, né ai secondi, né ai terzi, né alla maggioranza.
Questo significa fare i conti con la responsabilità che comporta una scelta ardua.
Eccellere è molto oltre tutto quanto possa esser utile a primeggiare.
Per essere primi bisogna osservare le regole e avere le possibilità di sfruttarle al massimo.
Essere eccellenti, invece, è sentirsi chiamati a interrogarsi sulle regole – non a seguirle –, a conoscerle meglio di chi le applica ossequiosamente, perché a un certo punto si sarà costretti a infrangerle. Costretti, sì. È una questione che va al di là dell’ambito lavorativo – non è semplice scriverne qui –, che ha a che fare con parole che hanno senso per pochi: daimon, provvidenza, destino…
E a questo punto siamo a un bivio: se queste parole non hanno senso, potete interrompere qui la lettura; ma se invece ce l’hanno, il finale è la parte più importante di questo articolo.
Bisogna guardare con indifferenza i primi e i sistemi che li certificano tali, ma altresì evitare di disprezzarli. Fare gli anti-eroi è corrosivo.
Chi eccelle può cadere nella palude dell’auto-celebrazione, sentirsi migliore di tutti, nemico di tutti, finendo per non accettare la responsabilità della chiamata, ossia trasmettere qualcosa di delicato, incontrando l’altro, confrontandosi costantemente con chi è similmente diverso.
Isolarsi, perciò, è il peggior rischio possibile, un rischio che i primi non conoscono, che, anzi, evitano come la peste, per restare nella loro confortevole echo chamber.
Essere diversi tra diversi, essere unici tra unici, essere se stessi tra gli altri: questa è la chiamata degli eccellenti.
Se si rinuncia a ciò, se si smette di cercare costantemente l’altro, con umiltà e con la coscienza della diversità e del suo altissimo valore, si fallisce irrimediabilmente.
Perché, attenzione, basta un attimo di stanchezza e quel fallimento che chiamiamo successo ci corromperà (cfr. Cioran).
E nella peggiore ipotesi diverremo volgarmente primi.
Vincenzo Notaro
Direttore creativo
Officina Mirabilis
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